Festival dell'Architettura 2
 
Ricchezza e povertà. Seconda edizione del Festival a Parma,
dal 19 al 25 settembre 2005
 

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Ricchezza e Povertà
Architettura: ricchezza e povertàUn titolo questo che sembrerebbe portare il Festival, e l’architettura che vi scorre, verso la dimensione dei massimi sistemi, dei grandi spartiacque, delle categorie generali. L’istanza morale appare scaturirne spontaneamente, come se si provasse a resuscitare quelle liaison dangeureuses tra architettura e moralità, per altro da tempo sottoposte all’ironia demolitrice di un Watkin anzichè alla critica della profonda indagine tafuriana e di tanti altri a seguire, che una condizione sempre più acquisita di post-modernità non può certamente più riproporre in termini ideologici e di ragione storica. L’avanzare il tema, così assunto, tradisce quindi intenzioni anacronistiche. Ma, per via strumentale, non è forse anche attraverso un anacronismo che si riesce a rompere le convenzioni totalizzanti di un architettura contemporanea agnostica, prevalentemente dedita al relativistico gioco simulacrale della città spettacolo, alla prassi di un’efficienza comunicazionale di cui si fa copertura un tecno-fantasismo progettuale velleitario quanto pervasivo? Fuori quindi da ogni tentazione neo-ideologica, da ogni convinzione assoluta sul ruolo etico del progetto, appare però giustificato il richiamo ad una ricerca di significato, di funzione di un architettura che possa appartenerci, in quanto attori piuttosto che spettatori. In questa prospettiva, parlare di ricchezza e povertà significa però innanzitutto cominciare a domandarsi in termini letterali: come l’architettura si rapporta a queste due condizioni che caratterizzano lo stato economico ma anche socio-culturale degli individui, la situazione discriminante di una comunità, di una città ma anche di un intera nazione od area continentale? Una concretezza interrogativa che, oltrepassando il polverone mondano dell’architettura mediatizzata, può trovare riscontri straordinari nelle pieghe dello stratificato della città italiana ed europea così come nell’estensione delle metropoli o degli insediamenti misconosciuti di altre realtà mondiali.

Risposte che l’architettura può dare, con il limite che le è proprio, ma che comunque entrano nel merito di scelte capaci di contribuire o alla radicalizzazione perversa della conflittualità, alla logica della separazione e dell’abbandono, oppure a virtuosi processi di integrazione, di perequazione, di conciliazione basati su un’intelligente possibilità di fruizione delle risorse insediative, ambientali, urbane, in generale architettoniche. Il tema della povertà non potrà più certamente passare attraverso una engelsiana questione delle abitazioni capace di rappresentare lo scontro paradigmatico tra blocchi sociali (classe operaia e borghesia) occupanti per intero la scena della polis sin oltre la prima metà del Novecento. Allo stesso modo appare oggi riduttiva l’interpretazione architettonica di una dimensione della ricchezza ancora fortemente legata ad un’identità omogenea, quanto culturalmente elevata, corrispondente alla borghesia di una modernità matura, così come è stato, ad esempio, attraverso le icone rivoluzionarie, per strade differenti ma parallele, delle architetture di Wright o di Mies. Ma, come ci ricorda il metodo di indagine storica di Braudel, una società è da sempre insieme degli insiemi, e ancor di più oggi, nell’era dell’accelerazione dei nuovi scenari fenomenici (anche insediativi) della massima circolazione finora mai sperimentata, l’incremento della quantità e qualità degli insiemi, la loro estensione inedita, la determinazione di nuovi spazi derivati dall’articolazione delle forme relazionali, ci introduce a scenari concettuali, oltre che di esperienza materiale, in continua e rapida evoluzione.

Se questo però significa la moltiplicazione degli attori, delle scene e dei teatri operativi che coinvolgono la funzione dell’architettura, la sua costruzione di senso, appare comunque necessario l’utilizzo di categorie generali capaci di orientare una volontà di lettura, di trasformazione, di progetto. Ecco allora che la partita dell’architettura a scala planetaria, tra ricchezza e povertà (ma anche tra circolazione, comunicazione, riproduzione, ibridazione, sintesi, meticciamento, omogeneizzazione, tecnicismo) deve innanzitutto passare il vaglio di un chiarimento sul problema identitario, su ciò che l’architettura rappresenta in quel luogo, in quel contesto, e per chi la determina. Una condizione identitaria capace di restituire innanzitutto una valenza di verità, di consapevolezza e di responsabilità al rapporto che l’architettura intrattiene con il mondo che trasforma, che non necessariamente si identifica, anche ma non solo, in un mondo regionalistico, per quanto ci trascina – inesorabilmente - la dimensione spazio-temporale postmoderna degli scambi e delle conoscenze. In questa chiave l’internazionalizzazione dell’architettura può assumere due declinazioni contrapposte: quella di una povertà identitaria basata sulla circolazione acritica di modelli insediativi di esportazione capaci di rispondere prevalentemente a finalità di ordine economico (sino poi a che punto?), oppure quella di una ricchezza identitaria dove il gioco avvalorante della peculiarità, della differenza, si riproduce attraverso la ricerca di ragioni specifiche, di conoscenze e interpretazioni reali e contestualizzate, di capacità di cogliere nuovi bisogni e proiezioni desideranti, di reinvestire vecchie culture nei congegni inventivi delle nuove. In altre parole serve riflettere su come contrastare una tendenza all’impoverimento delle specie architettoniche, come d’altra parte condizione parallela ed integrata allo scadimento antropologico caratterizzato dal prevalere di sensibilità primitive, analfabetismi di ritorno, derive bio-politiche, virtualizzazione dell’esperienza, assuefazione al non-luoghi.

Risulta d’altra parte evidente che il giorno di una ridotta varietà di espressione, rappresentazione e specificità funzionale dell’architettura, rappresenta un giorno di un impoverimento generale (culturale ma alla lunga anche economico), quello che spesso ormai ci lascia delusi, anche sul piano della più banale esperienza turistica, di fronte alla replica di repertorio di molte aree urbane del pianeta, e in particolare di quelle in via di più forte trasformazione.

La seconda edizione del Festival dell’Architettura apre la propria, pur ridotta e non sistematica, capacità di ricerca ad un ambito internazionale capace al contrario di dimostrare come l’avanzamento evolutivo possa invece essere occasione di arricchimento del portato di significati e di capacità interpretativa, quindi di peculiarità dell’architettura, paese per paese, contesto per contesto. Attraverso scuole, architetti ed operatori responsabili, capaci di porsi criticamente di fronte al professionismo d’importazione, e di incrementare una ricerca progettuale incentrata sulla dialettica tra forme originali della peculiarità insediativa e l’onda d’urto delle nuove esigenze che i processi forti di trasformazione necessariamente comportano.

 
Allo stesso tempo, come nella magia simbolica spazio-temporale di una rappresentazione teatrale, i fenomeni e le tendenze più conclamate e lontane sono richiamate nel Festival anche attraverso fenomeni magari ravvicinati e apparentemente consueti, di cui il contesto italiano rimane sempre, ad evitare il neo-provincialismo dell’ideologia globalista, un privilegiato laboratorio del divenire. E lì auspichiamo di poter ritrovare, rispetto al tema prevalente della ricchezza e della povertà (poiché molta altra materia tematica continua comunque ad abitare il Festival dell’eteroarchitettura), non solo alcuni esiti di una corrispondenza letterale ( tra riconversioni di favelas, nuove case popolari, fashion houses and show room e gare planetarie al grattacielo più alto) ma anche di reciprocità semantiche basate sulla critica del ribaltamento, pratica antica dove dimensione etica ed estetica si fondono indissolubilmente: quando ciò che appare ricco si disvela povero, e ciò che appare povero si rivela ricco.
 
Fonte: Sito ufficiale del Festival

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